Lo chiamano il campo dei «Mangiatori di topi», un posto che se non lo vedi con i tuoi occhi non ci credi che esiste. L’accampamento rom abusivo di Lungo Stura Lazio è una grande bidonville dimenticata.
Una sponda malsana, tra le baracche e le roulotte scassate, dove la Torino che “non sta mai ferma”, quella dei cantieri e del progresso urbanistico, non è mai arrivata. Siamo in zona Barca, estrema periferia nord-est a due passi da Settimo e ultimo girone infernale della città. Qui secondo alcune stime vivono tra le mille e le duemila persone, e almeno duecento sarebbero i bambini. La certezza nelle cifre non c’è. I numeri sono un’opinione per chi convive tra gli arbusti con ratti e immondizia, anche di origine sospetta. Eccolo il quarto mondo a due passi da noi, il drammatico microcosmo umano ignorato dalla politica, la bomba ecologica che nessuno sa come disinnescare.
Dagli orti abusivi agli affari sporchi
Gli abitanti del campo sono per lo più rom romeni, rom italiani e cittadini romeni. I primi occupanti sono arrivati negli anni ’90, quando sulla sponda destra della Stura c’era soltanto una distesa di orti abusivi, coltivati con accanimento dai pensionati della zona. Era un piccolo gruppo di romeni, fuggiti dal loro paese dopo la fine della dittatura di Ceausescu. Gente di poche pretese dicono le malelingue, abituata a vivere nelle fogne di Bucarest. Ecco perché dalla sponda opposta del fiume altri nomadi meno disperati di origine slava hanno cominciato a chiamarli con disprezzo «Mangiatori di topi». Col passare degli anni la comunità è cresciuta fino ad arrivare a contare più abitanti di molti paesi del Piemonte. Oggi in Lungo Stura Lazio c’è una piccola città di disperati, con i numeri civici segnati sulle baracche con spray rosso e persino con piccoli pseudo-rioni. Sembra assurdo ma anche nel girone infernale degli ultimi c’è chi è meno disgraziato degli altri: chi vive verso il ponte di strada Settimo, dietro il monumento ai partigiani, sta meglio di quelli costretti a contendere lo spazio vitale ai topi in un pezzo di terra sotto il livello del fiume che qui chiamano «la buca». In quello che un giudice del tribunale di Torino ha definito «uno dei luoghi peggiori mai visti», una capanna costa 250 euro, ma c’è chi possiede due proprietà e ne affitta una per 10 euro a settimana. Chi non paga viene sfrattato, ma senza le lungaggini della burocrazia italiana: bastano un paio di rom con l’aria truce a costringere il malcapitato a cambiare aria. Solitamente questo metodo funziona, soprattutto dopo che nel 2008 un uomo di nazionalità romena è stato ucciso a colpi di motosega da due connazionali dopo una disputa sul possesso di una “abitazione” affacciata sul fiume. Ma a differenza di quanto si sarebbe portati a credere, in questo dedalo di dormitori fatiscenti si trova una grande varietà umana. C’è la brava gente che riesce a sopravvivere con lavori umili ma onesti, e c’è chi delinque. Tutti sono costretti a rispettare la legge non scritta di un gruppo impenetrabile, governato da pochi capi famiglia. La miseria di Lungo Stura Lazio è un terreno fertile per la criminalità e le baracche sono il punto di partenza per molte attività illegali.
Già alle otto del mattino lo stradone che costeggia la favela torinese inizia a brulicare di rom. È come un condominio i cui abitanti si alzano e vanno al lavoro. E sulle sponde della Stura gli impieghi sono molteplici: ci sono gli invalidi, succubi del racket delle elemosine, che partono lentamente per raggiungere gli incroci sparsi nei diversi quartieri, le borseggiatrici con le gonne lunghe pronte a prendere d’assalto i mezzi pubblici, i ragazzi esperti nel rubare i motorini e quelli abili nel maneggiare il piede di porco per svaligiare gli appartamenti. Infine ci sono i “predoni di oro rosso”, rom specializzati nel procurarsi rame e metalli pregiati, che si mettono in cammino con in spalla gli zainetti e in tasca le tronchesine.
Mentre i “lavoratori” sono in giro, i bambini rimasti nella baraccopoli giocano tra i sacchetti dell’immondizia colorati. Poco distante gli uomini giocano a biliardo in un bar improvvisato dove si stringono legami familiari e si concludono affari davanti a un bicchiere di birra.
Il ritorno di massa al campo avviene solo quando cala la notte e si fanno i conti con i capi. Chi ha lavorato male portando poche monetine o una refurtiva scadente, viene punito. Poche scuse, è la legge di Lungo Stura, dove si vive ai margini del codice penale e chi si ribella può addirittura perdere la vita. È accaduto a Vasile Doicescu, muratore quarantenne senza precedenti penali, morto bruciato vivo nel giorno di Pasqua del 2008 per aver disobbedito alle supreme regole della bidonville.
L’apparente ordine imposto dai capi bastone non vale però al di fuori del campo. Più volte negli ultimi anni la polizia ha dovuto intervenire per sedare delle risse tra i romeni di Lungo Stura e gli slavi del vicino accampamento autorizzato dal comune. Litigano a volte per motivi passionali e più frequentemente per affari. Provocazioni, minacce reciproche di vendetta che finiscono a bastonate e addirittura con qualche sparo. Poi torna la calma apparente: qualcuno si impone, qualcun altro si sottomette e i feriti di una parte e dell’altra, una volta portati in ospedale, si rifiutano quasi sempre di sporgere denuncia. È chiaro che la legge italiana non è bene accetta all’interno del campo. La zona è off limits e la polizia lo sa. Le iniziative di agenti solitari sono assolutamente sconsigliate dopo che nel 2007 una pattuglia ha rischiato il linciaggio per aver inseguito un’auto fin dentro le stradine fangose della bidonville.
I blitz organizzati invece si fanno, e in qualche caso hanno portato a scoprire merce rubata pronta ad essere spedita in Romania: vestiti, materiale edile ed elettrico, qualche scooter.
Roghi, epidemie e rifiuti misteriosi
La notte nel campo rom ha il sottofondo delle urla tra ubriachi e delle musiche dell’est. Si litiga e si fa festa a pochi passi gli uni dagli altri, mentre i residenti del quartiere Barca si lamentano per gli schiamazzi e per il fumo nero e l’odore acre di gomma bruciata che sale dal campo col calare del buio. I “predoni di oro rosso” fondono il rame trovato in città separandolo dalle guaine di gomma che ricoprono i cavi, provocando in questo modo fumi tossici che a seconda del vento possono arrivare anche fino alla Falchera e alla Barriera di Milano. L’ignoranza e le quotazioni di questo metallo fondamentale per l’edilizia sul mercato nero (fino a 10 euro al chilo) fanno passare in secondo piano gli effetti nocivi sulla salute e trasformano la Barca in una piccola Terra dei Fuochi, nata in silenzio e cresciuta nell’indifferenza dell’operoso e civile Nord Italia.
Il campo intanto continua a crescere nonostante i piccoli gruppi di fuoriusciti che, stanchi di vivere in mezzo ai topi e alla violenza, vanno a occupare terreni altrove. Per chi invece rimane in Lungo Stura Lazio, l’emergenza non conosce stagioni. D’inverno il rischio maggiore sono gli incendi, che possono divampare all’interno delle stamberghe a causa delle stufe accese, e le alluvioni, che fanno alzare improvvisamente il livello del fiume arrivando a lambire le baracche più vicine alla riva. Ad ogni ondata di piena la Protezione Civile sgombera in fretta la zona ma appena il torrente torna negli argini la vita nel campo ritorna come prima, aspettando la bella stagione che porta però inevitabilmente altri problemi. I bambini fanno i tuffi nel fiume inquinato per trovare sollievo al caldo di luglio che trasforma l’immensa quantità di spazzatura presente nella favela in una bomba ecologica, un focolaio di epidemie.
Sono proprio i rifiuti, l’ammasso informe che circonda e sommerge le catapecchie, che viene spostato di volta in volta per cercare altro spazio in cui accamparsi, il problema principale del campo. Con l’aiuto dei volontari in passato sono state organizzate operazioni di pulizia che hanno permesso di portare via centinaia di tonnellate di spazzatura. Poi i soldi del Comune sono finiti e l’immondizia è tornata nel campo come e più di prima. Dune che camminano, compongono e scompongono cataste di schifo in cui si trova di tutto: sacchetti di plastica, vecchi elettrodomestici, mobili, materassi, pneumatici di camion, ferri arrugginiti e persino amianto. Ma c’è di più, il sospetto che i rifiuti comuni nascondano scarti nocivi è forte. Lo ha detto chiaro e tondo già nel 2010 a La Stampa Michele Curto, ex presidente della Terra del Fuoco, associazione impegnata nella mediazione sociale negli insediamenti abusivi: «Nessuno sa che cosa si nasconde nei cumuli di rifiuti, di certo non tutto arriva da dentro il campo». Le sponde del fiume sarebbero diventate «lo sversatoio di Torino, anche per i rifiuti industriali e chimici». Una questione che potrebbe anche assumere risvolti allarmanti se venisse provata l’esistenza di un’ecomafia locale formata da piccole e medie imprese che stringono patti con i capi per poter scaricare impunemente tra gli arbusti e le baracche di Lungo Stura i loro rifiuti pericolosi. Sono passati altri due anni, ci sono state le elezioni e l’entrata in carica di un nuovo consiglio comunale, ma in Lungo Stura Lazio non sembra essere cambiato nulla. Eppure ad ogni tornata elettorale si fanno proposte per risolvere il problema dei rom. La demagogia la fa da padrone, poi appena chiuse le urne si scopre che i soldi per le bonifiche non ci sono e la politica viene inevitabilmente colpita da una imbarazzante paralisi. «Bisognerebbe sgomberarli», dicono i residenti della Barca, ormai esasperati. Solo che la maggior parte degli occupanti dell’accampamento sono cittadini comunitari che non si può rimandare a casa. Dunque l’atteggiamento dell’amministrazione comunale in merito alla questione dei duemila rom pare almeno per ora orientato a non svegliare il can che dorme. Almeno fino alla prossima piena, fino al prossimo focolaio di Tbc, fino al prossimo episodio di violenza.